Nella newsletter dello scorso novembre si è evidenziato come – durante il 13° Forum Internazionale sul Tumore Ovarico tenutosi a Toledo nel 2015 –   ricercatori e medici abbiano delineato i principali obiettivi che la ricerca scientifica avrebbe dovuto perseguire nei prossimi anni per ottimizzare e migliorare la sopravvivenza delle pazienti affette da tumore dell’ovaio.

Tra i vari punti, compariva quello relativo alla necessità di arrivare ad una diagnosi sempre più precoce: arrivare prima è l’arma migliore a disposizione per migliorare la cura. Questo è un tema particolarmente caro alla popolazione femminile, da sempre alla ricerca di concrete risposte.

La diagnosi precoce è sempre stata il “tallone d’Achille” della ricerca sui tumori dell’ovaio, in quanto la natura asintomatica della malattia ha reso complicato lo sviluppo dei test di screening in grado di diagnosticare la malattia nelle sue fasi precoci sulla popolazione generale, anticipando così il progresso verso la malignità. Nel caso del tumore dell’ovaio, quanto più precoce risulta la diagnosi, tanto migliori saranno le probabilità di guarigione. E’ stato stimato che se si riuscisse a diagnosticare una massa di tumore ovarico più piccola di 0.5 cm con screening annuale,  si potrebbe ridurre la mortalità di oltre il 50% (Brown PO, Palmers C, 2009). Tuttavia, molti degli sforzi degli ultimi anni sono stati focalizzati a trattare il tumore dopo la diagnosi migliorando le terapie farmacologiche e chirurgiche, piuttosto che concentrarsi nel cercare di anticipare la diagnosi della malattia.

La realtà dimostra un quadro molto complesso: gli strumenti oggi a disposizione come la titolazione nel sangue dei livelli di CA125 o l’ecografia transvaginale ad ultrasuoni sono molto poco sensibili (cioè, la probabilità che un esame diagnostico dia esito positivo se il paziente è affetto da malattia) e specifici (cioè, la probabilità che un esame diagnostico dia esito negativo se il paziente NON è affetto da malattia). Di oltre nuovi 28 nuovi biomarkers fino ad oggi identificati, nessuno è risultato migliore del CA125.

Queste difficoltà sono emerse da una prima analisi dei dati pubblicati sul numero di dicembre della prestigiosa rivista inglese The Lancet Oncology, in cui sono analizzati i risultati di uno studio su oltre 200.000 donne sane in menopausa che sono state valutate dopo che hanno partecipato ad uno screening con CA125 ed ecografia ad ultrasuoni, ad uno screening solo con ecografia, oppure che non hanno fatto alcuno screening. I dati sono stati purtroppo deludenti perché non si dimostra una differenza significativa nella  riduzione di mortalità in nessun dei tre gruppi. Gli strumenti di screening a nostra disposizione sono in grado di intercettare solo una paziente su due con possibile sviluppo di tumore. Questo dato ovviamente si ripercuote sulla capacità di migliorare la sopravvivenza: nell’arco di cinque anni, le persone che hanno ricevuto uno dei due tipi di screening hanno avuto una riduzione della mortalità del 15% a 5 anni dalla diagnosi, e del 20-25% a sette anni dalla diagnosi. Questo risultato necessita di ulteriori approfondimenti.

Questo studio è in linea con altri condotti in precedenza, in cui viene messa in evidenza l’  inadeguatezza degli strumenti di screening a nostra disposizione. Perciò questo filone di ricerca risulta essere uno dei principali su cui investire nei prossimi anni.

Sergio Marchini
Dipartimento di Oncologia
IRCCS Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri

Referenze
Brown PO, Palmer C. The preclinical natural history of serous ovarian cancer: defining the target for early detection. PLoS Med 2009; 6:e1000114.

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